Esiste una parola che riecheggia nei corridoi della nostra crescita interiore, spesso acclamata come soluzione finale a ogni ferita: il perdono. Ci sforziamo di perdonare gli altri, e con fatica ancora maggiore, tentiamo di perdonare noi stessi. Eppure, in questo stesso sforzo, possiamo percepire una sottile dissonanza. Forse, la mappa del “perdono” ci sta conducendo in un territorio fittizio, dove la vera meta, la pace, rimane irraggiungibile. Il percorso spirituale autentico, specialmente nella luce del Kriya Yoga, non ci invita a perdonare, ma a compiere un salto di coscienza qualitativamente superiore: un passaggio dall’algebra del giudizio all’alchimia della comprensione.
Immaginiamo il ciclo classico: un’azione o un evento ci colpisce, e la mente, per sua natura, etichetta. Emana un giudizio: “questo è sbagliato, questo non avrebbe dovuto accadere”. Da quel giudizio scaturisce un senso di colpa, diretto verso l’altro o, più spesso, riversato su noi stessi. La colpa non è un semplice riconoscimento di un errore; è un’emozione pesante, stagnante, che ci incatena al passato. A questo punto, il perdono viene presentato come l’antidoto, l’unico modo per sciogliere il nodo. Tuttavia c’è un paradosso: il perdono, in questa dinamica, presuppone e necessita della colpa. È un sistema chiuso, un dialogo di tribunale interiore in cui una parte della nostra psiche, assisa sul seggio del giudice, concede la grazia a un’altra parte, rea e supplice. È una riconciliazione negoziata, non una genuina dissoluzione del conflitto. In questa trappola, anche l’atto del “perdonarsi” può nascondere un’ombra di superbia, un sottile “io sono al di sopra dell’errore che ho commesso”.
Il Kriya Yoga, nella sua saggezza pratica, ci indica una via di uscita da questo labirinto. Non si tratta di perdonare, ma di trasmutare. È un processo di trasformazione interiore che sostituisce la sequenza giudizio-colpa-perdono con un flusso organico di consapevolezza: comprensione, compassione e accettazione incondizionata.
Il primo passo è abbandonare il ruolo di giudice e indossare i panni dell’investigatore amorevole. La comprensione sorge quando ci chiediamo, con curiosità priva di biasimo: “Da quale movimento interiore è scaturita quell’azione? Quale desiderio nascosto, quale paura antica, quale vecchio imprinting karmico stava cercando una via d’uscita?”. Non si tratta di giustificare, ma di illuminare. È la luce della consapevolezza che, semplicemente osservando, inizia a sciogliere l’oscurità.
Da questa comprensione profonda, sorge naturalmente la compassione. Non la compassione come pietà distaccata, ma come vibrazione del cuore che riconosce la sofferenza universale. È il momento in cui realizziamo che, date le stesse condizioni, le stesse nubi di ignoranza (avidya), chiunque, noi compresi, avrebbe potuto inciampare nello stesso identico modo. La compassione è l’antitesi della superbia: è l’umile riconoscimento della nostra comune fragilità umana, il ponte che ci riconnette agli altri e a noi stessi, sciogliendo l’isolamento tossico della colpa.
Infine, da questo terreno fertile di comprensione e compassione, fiorisce l’accettazione incondizionata. Questa non è rassegnazione passiva, ma integrazione totale. È l’atto di abbracciare ogni frammento della nostra storia, ogni ombra, ogni caduta, non come un errore di cui vergognarsi, ma come un capitolo necessario del viaggio dell’anima nella dimensione umana. Non c’è più nulla da perdonare perché non esiste più un tribunale. C’è solo la totalità dell’essere che accoglie e trasforma ogni esperienza in saggezza.
Quando questo flusso diventa il fondamento del nostro vivere, accade qualcosa di miracoloso: l’allineamento. Il nostro Essere, non più offuscato dal giudizio, risplende come pura presenza. Il nostro Sentire, non più distorto dalle reazioni del passato, diventa un cuore libero di rispondere al mondo con amore invece di reagire con paura. E il nostro Agire cessa di essere una compensazione o una fuga; diventa invece un’espressione spontanea, gioiosa e allineata di chi siamo veramente. In questo spazio, la vita non è più una sequenza di colpe da espiare, ma un Kriya, un’azione sacra, che scaturisce dal silenzio interiore e fluisce nel mondo come grazia.
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