Fede, autonomia esistenziale e Kriya Yoga

Nella vita umana, accade talvolta che, pur mettendo in campo ogni sforzo, ogni più sincera intenzione e ogni più accorata volontà, non si riesca a raggiungere un livello di autonomia sufficiente a garantire una dignitosa sussistenza. Questa realtà, spesso taciuta o guardata con un misto di imbarazzo e giudizio sociale, tocca profondamente l’essere umano nella sua dimensione esistenziale. Quando ogni tentativo sembra fallire, e la vita pare ritrarsi da ogni sforzo con un ostinato silenzio, può nascere nel cuore una lacerazione profonda: la perdita della fede. Ma cos’è, in verità, questa fede che sembra vacillare? E, soprattutto, come la trattano testi sapienziali come gli Yoga Sutra di Patanjali, la Bhagavad Gita, o il Tirumandiram di Tirumoolar, alla luce del sentiero del Kriya Yoga?

Occorre innanzitutto distinguere il significato di “fede” in questi contesti. Nel mondo moderno, fede è spesso intesa come adesione dogmatica a una credenza religiosa. Nei testi yogici, tuttavia, la fede (śraddhā) è una forza interiore, un’intima fiducia nella bontà del dharma, nella coerenza dell’ordine cosmico, nella possibilità della trasformazione attraverso la disciplina (tapas), l’autoindagine (svādhyāya) e l’abbandono al Sé (Īśvarapraṇidhāna).

Nel secondo libro degli Yoga Sutra, Patanjali afferma con semplicità ed energia che “śraddhā” è uno dei pilastri che sorreggono il progresso dello yogin. Nel Sutra I.20, egli dichiara:

“śraddhā-vīrya-smṛti-samādhi-prajñā-pūrvaka itareṣām”

cioè: “Per gli altri (coloro che non hanno ancora raggiunto il samādhi), la pratica si basa su fede, energia, memoria, concentrazione e saggezza intuitiva.” Qui la fede non è cieca accettazione, ma forza motrice. Śraddhā è ciò che sostiene il praticante nei momenti in cui i risultati non si vedono, quando le prove si fanno oscure, e la via si inabissa nell’incertezza. Essa è, si potrebbe dire, l’intuizione della luce anche quando tutto appare buio.

Quando un essere umano, pur operando con sincerità, non riesce a ottenere la stabilità economica necessaria per vivere, il senso di fallimento può insidiare proprio questa śraddhā. Ci si può sentire abbandonati, e la mente comincia a mormorare pensieri: “A che serve lo sforzo?”, “Perché l’universo non risponde?”, “Perché la grazia non scende su di me?”. In questi momenti la Bhagavad Gita offre una visione potente e radicale, proprio nelle parole che Krishna rivolge ad Arjuna nel campo di battaglia.

Nel capitolo II, verso 47, Krishna dice:

“karmaṇy-evādhikāras te mā phaleṣhu kadāchana mā karma-phala-hetur bhūr mā te saṅgo ‘stv akarmaṇi”

Tradotto: “Hai il diritto all’azione, ma non ai frutti. Non lasciarti mai motivare dai frutti dell’azione, e non cadere nell’inazione.” È una delle dichiarazioni più rivoluzionarie del pensiero spirituale orientale. L’essere umano ha la libertà e la responsabilità di agire secondo il dharma, ma non può pretendere di controllare gli esiti delle sue azioni. Questo non è un invito al fatalismo, ma alla resa consapevole, all’abbandono del frutto come centro dell’identità.

Quando la sussistenza manca, quando ogni sforzo sembra infruttuoso, la Gita ci invita a rivolgerci all’azione come offerta, come yajña. Il lavoro non è più un mezzo per ottenere, ma una forma di adorazione. Come Krishna spiega in IV.23:

“gatasaṅgasya muktasya jñānāvasthita-cetasaḥ yajñāyācarataḥ karma samagraṁ pravilīyate”

“Le azioni di colui che è libero dall’attaccamento, liberato e con mente stabilita nella conoscenza, compiute come offerta, si dissolvono completamente.”

Il Kriya Yoga, che è il sentiero dell’azione consapevole, insiste proprio su questo. Quando la mente è radicata nel Sé, ogni atto – anche procurarsi il pane quotidiano – diventa una meditazione, un’adorazione silenziosa. Ma come si può vivere ciò quando si è stremati, umiliati, scoraggiati? Proprio qui, nel punto più vulnerabile, si accende la possibilità della vera resa.

Nel Tirumandiram, uno dei testi più profondi dello yoga tantrico e siddha, il grande Rishi Tirumoolar parla della potenza del respiro, della consapevolezza e della devozione come strumenti di trasfigurazione. Il testo è disseminato di versi che parlano dell’interiorità come tempio, della discesa della grazia nel cuore dell’umiltà. Tirumoolar afferma:

“The ignorant think they own their deeds, But the wise see Lord’s hand in all. Let go the pride that says ‘I do’, And peace will come like a gentle fall.”

Il senso è chiaro: fintantoché crediamo di essere i padroni delle nostre azioni e dei loro risultati, saremo in preda all’ansia e alla frustrazione. Solo lasciando andare questa illusione, lasciando che la vita fluisca attraverso di noi come un atto di servizio, la pace può fiorire. Ma questa non è una rinuncia passiva, è una partecipazione radicale: io agisco, sì, ma come strumento del Sé.

Nel Kriya Yoga, la pratica non è mai separata dalla vita. L’energia (prana) che si muove lungo le nadi, che risale la sushumna nella meditazione, è la stessa che anima ogni gesto quotidiano. Quando non riusciamo a sostenere la nostra esistenza, è il tempo per rivolgere lo sguardo all’interno con rinnovata onestà. Che cosa sto veramente cercando? Il successo, o la connessione? L’indipendenza, o la comunione?

È qui che la fede cambia volto. Da un’aspettativa di ricompensa, diventa una dimora. La śraddhā non è più la speranza che le cose vadano come desidero, ma la certezza che ciò che avviene è esattamente ciò che serve alla mia crescita. Anche l’apparente fallimento economico diventa così un maestro, una soglia iniziatica. Non un segno di abbandono divino, ma un’opportunità per dimorare nel Sé anche quando tutto l’io si sente svuotato.

Nella tradizione del Kriya Yoga, questa trasformazione è sostenuta dalla pratica del respiro consapevole, del mantra, della concentrazione sul Sé nel cuore. Il respiro, in particolare, diventa il filo d’oro che collega l’angoscia alla quiete. Quando tutto sembra crollare, il tornare al respiro – profondo, presente, sacro – riconnette alla sorgente. È il “sacramento interiore”.

Il Kriya non ci chiede di rinunciare al mondo, ma di trasformare la nostra visione. Così come Patanjali nel Sutra II.1 definisce il Kriya Yoga come:

“tapaḥ svādhyāya īśvarapraṇidhānāni kriyāyogaḥ”

ovvero: “Disciplina, studio del Sé, e abbandono al Signore sono il Kriya Yoga.”

Questi tre elementi diventano una medicina per i tempi oscuri. Tapas è la capacità di continuare a impegnarsi, di tenere acceso il fuoco della presenza anche nella fatica. Svādhyāya è l’autoindagine, il continuo interrogarsi: “Chi sono io, al di là del ruolo, del fallimento, della storia?” E Īśvarapraṇidhāna è l’abbandono, il lasciare che la volontà del Sé guidi ciò che la mente non può comprendere.

In questo modo, anche il dolore dell’indigenza, la frustrazione del non riuscire, diventa parte della via. Non è romanticizzazione della sofferenza, ma sua trasmutazione. La via del Kriya è una via incarnata: si medita nel respiro, si serve nel lavoro, si ama nella relazione, si accetta nella prova. E ogni passo, se fatto con śraddhā, diventa uno yoga.

Così, quando la vita pare fallire, i testi dello yoga non ci giudicano, ma ci chiamano a uno sguardo più ampio. Non sei solo. Non sei abbandonato. Sei chiamato a ricordare chi sei veramente: non un io che cerca risultati, ma un’essenza che si offre interamente alla Vita.

E in quella resa, paradossalmente, fiorisce la vera autonomia: quella del Sé. La sussistenza esteriore può mancare, ma non manca mai la Presenza che, silenziosa, accompagna ogni respiro. Ritrovare quella Presenza è il primo passo, sempre disponibile, anche nel buio.

Come afferma Krishna nella Gita (IX.22):

“Ananyāś cintayanto māṁ ye janāḥ paryupāsate tesāṁ nityābhiyuktānāṁ yoga-kṣemaṁ vahāmy aham”

“Coloro che meditano su di Me senza distrazioni, che si consacrano costantemente, a essi porto ciò di cui hanno bisogno e proteggo ciò che già possiedono.”

Questa è la promessa dello Yoga. Non una garanzia di successo, ma una certezza di sostegno. La vita può ferire, ma il Sé è inviolato. E là, nella profondità dove il respiro incontra il silenzio, torna a risuonare la fede. Non come speranza fragile, ma come consapevolezza indistruttibile.

È proprio nei momenti in cui tutto sembra venir meno che può sorgere la più autentica chiamata alla realizzazione. Là dove crolla l’illusione del controllo, si apre lo spazio dell’abbandono. E là dove l’io è svuotato, può emergere il Sé.

Questa è la vera ricchezza: essere interamente ciò che si è, nell’umiltà del darsi, nella forza del respiro, nella luce che nessuna notte può spegnere.